CRITICA
Marco Bongioanni, Ancr.to.it L ́unico film che abbia tentato un dialogo resistenziale con quelli che stavano dalla parte sbagliata, puntando in qualche modo – ma diversamente da quanto fece Turolla in “La mano sul fucile” – sulla ricomposizione del dissidio fra italiani, è stato La strada più lunga tratto da Nelo Risi dal romanzo “Il voltagabbana” di Lajolo. Mentre nel contesto globale dei Racconti italiani della Resistenza diffusi dalla nostra televisione, questa storia integra equamente il panorama resistenziale, a Cuneo è giunta invece come una ennesima variazione sui ritornelli marxisti scanditi con aperto didascalismo. Ma, come dicevamo, è stata la sola opera tesa al dialogo tra vincitori e vinti e al recupero di questi ultimi nella società nuova nata dalla resistenza. Questo aspetto, per quanto parzialmente trattato, ha motivato sia la presenza, sia il premio speciale conferito dalla giuria “per i valori educativi di una crisi personale tenuta fuori da schemi avventurosi, espressi con un mezzo di grande divulgazione quale è il film televisivo”.
Claudio Bertieri, Ancr.to.it Da “Il voltagabbana” di Davide Lajolo, Nelo Risi ha tratto il soggetto del suo “La strada più lunga”, un originale televisivo inserito in un ridotto ciclo di racconti sceneggiati trasmessi dalla TV italiana a celebrazione del ventennale della Resistenza. Anche qui l ́antieroe, seppur sotto una luce per noi italiani più spietata. Uno dei molti che hanno passato gli anni migliori al fronte, lontano da casa, e con l ́impegno di obbedire ad un dovere. Dopo la lotta e le sanguinose esperienze, un ritorno che non significa pace né ricostruzione, ma angosciosa presa di coscienza di fronte alla tragedia dell’8 settembre. Seppur nel limitativo arco di un racconto su commissione, Risi ha nondimeno sviluppato con dolorosa passione il tema centrale rimasto integro nel passaggio dalla pagina al piccolo schermo: il corruccio rabbioso del protagonista che non si vuole arrendere all’evidenza dello sfacelo completo di una ideologia in cui aveva onestamente creduto e, poi, la lenta, contrastata decisione di “passare” razionalmente dall’altra parte. Fidando anche in un Volonté misurato ed estraneo a modi tradizionali, Risi ha saputo dare giusta rilevanza ad un personaggio che se è protagonista di una vicenda privata, è però insieme coro della stessa e, quindi, collegamento di un fitto intreccio di appunti e sottolineature tendenti opportunamente a dilatare gli eventi oltre il caso personale per un più concreto e responsabile dialogo con la grande massa dei telespettatori.
Salvatore Francesco Lattarulo, Un caso di rilettura originale della Resistenza, 2016 (…) Nell’ambizione di asciugare il romanzo che si presenta qua e là disorganico e dispersivo per l’inserzione debordante di troppi materiali34, come per esempio le lettere dal fronte, Risi ― che in tal senso realizza una ben riuscita operazione di editing cinematografico ― elimina il doppio binario della narrazione. Il «voltagabbana» è in effetti un libro a due voci. In alcuni capitoli a prendere direttamente la parola è Davide Lajolo, in altri, contraddistinti in carattere corsivo (una soluzione tipografica che di per sé suscita a livello ottico un’impressione di frammentarietà), è Francesco Scotti, un comunista duro e puro di Castelpurlengo, conosciuto durante la guerra di Spagna del ’37. I due, che si sono combattuti su fronti opposti, ciascuno a suo modo, ciascuno sposando convintamente fedi politiche diverse, e pur tuttavia nel nome congiunto della libertà e del riscatto degli oppressi, si ritrovano insieme al termine del libro, stavolta dallo stesso lato della barricata. Le due biografie, che lungo tutto il romanzo procedono come due affluenti paralleli di un medesimo fiume, confluiscono così alla fine in unico corso d’acqua, che è poi l’alveo capiente di una grande storia comune. (…) La trovata di Risi sta nel trasfondere il ruolo di Scotti nel personaggio di zio Augusto. (…)
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